mercoledì 3 aprile 2013

Occhi

Occhi indaco.

Occhi pieni di vita, lucidi, disarmanti. Ma anche imbarazzati, grati.

Sono gli occhi di M*, un ragazzo, o forse meglio, un giovane uomo, che ieri notte abbiamo riaccompagnato a casa, prelevandolo dall'astanteria di un pronto soccorso.

Ha la mia stessa età M*, solo sei giorni (sei) di differenza da me; sono io quella maggiore.

Ha gli occhi indaco M*, non come i miei che tendono al verdognolo solo se c'è il sole, ma per la maggior parte del tempo sono di un banalissimo castano.

Ha gli occhi grati M*, che ti sorridono imbarazzati perchè con la mano sposti la coperta per coprirgli  meglio i piedi, e allo stesso tempo per nascondere alla vista degli altri il catetere che gli hanno sistemato fra le gambe.

Ti ringrazia con gli occhi, perchè con la voce fa fatica anche a pronunciarlo un "grazie".
E ti sorride con quegli occhi pieni di vita, ma anche con i tratti delle labbra: anche se fatica a fare pure quello. Ma si fa capire benissimo che ti è grato, con tutto il suo disarmante imbarazzo.

E alla fine sei tu quella veramente imbarazzata, perchè tutta questa gratitudine ti spoglia e ti senti di non meritartela, che non è necessaria.

Non si può più muovere M*, ha la scelerosi multipla.

Non vive nemmeno in una vera casa.
Ha una stanzetta in una struttura specializzata, dove fuori da ogni porta - sotto il numero della stanza - c'è la foto dell'ospite che la occupa. A ricordarci quanto possa essere quotidiana e familiare la sofferenza.

Dicono che alla fine ci si abitua un po' a tutto.
Che le cose, alla lunga, cominciano a farti semper meno effetto, che poi diventano una specie di routine  e che quindi poco alla volta ti segneranno sempre meno.
Così dicono.
Ma a me, sotto sotto, in fondo in fondo, piace sperare che ci saranno altri occhi che mi commuoveranno, e che mi faranno riflettere su un sacco di cose banalmente date, in continuazione, per scontate.


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